Sabato 5 novembre 2022

alle ore 18:00 presso Il Fondaco verrà inaugurata

“ENTROTERRA”

di

Paolo Pallara

Maurizio Pilò

a cura di Silvana Peira

Tre questioni di linguaggio: paesaggio-natura-oltre

Claudio Cerritelli

Paesaggio e perduta identità

L’arte del secolo scorso ha trasformato profondamente l’idea di paesaggio criticandone il carattere contemplativo e la funzione rappresentativa, attraverso molteplici processi di disgregazione dello spazio prospettico. Il paesaggio non è più contemplabile nella sua forma unitaria, diventa un pretesto per infrangere le certezze e i fondamenti acquisiti operando sulla frammentazione dei piani di racconto. Entrano in gioco nuovi transiti di sguardo, l’attitudine alla veduta d’insieme non offre più garanzie conoscitive, il frammento assurge ad assoluto tramite percettivo e dalla cancellazione del dato reale nasce un inedito montaggio visivo, una sorprendente aggregazione di elementi in libertà.

Le cosiddette avanguardie storiche hanno dato diverse risposte a questo progetto di decostruzione e ricostruzione del tessuto visivo del paesaggio, volgendosi soprattutto alla dimensione dell’urbano e rifiutando la categoria pittorica del naturalismo come cascame del paesaggismo ottocentesco. Dal cubismo al futurismo, dall’espressionismo all’astrattismo l’arte di “far paesaggio” ha riflettuto intorno a una serie di procedimenti percettivi che rifondono l’atto di guardare la realtà, identificandosi nel processo stesso di costituzione del linguaggio. L’immagine della natura è stata per esempio sostituita dalla natura stessa dell’evento creativo, attraverso un processo linguistico autoreferenziale.

Eppure, in un secolo che sulle esequie della visione naturalistica ha inventato nuove forme di paesaggio con relativi artifici spaziali, l’immagine della natura non è mai svanita del tutto, riconfermandosi come riferimento inevitabile, anche per le tendenze artistiche che hanno cancellato il principio di verità ottica del reale.

Si è -in tal senso- parlato di “eclissi del paesaggio”, una dimensione di presunto azzeramento che tuttavia non ha cancellato definitivamente il volto della natura ma ne ha salvato il fantasma come traccia che sopravvive alla dichiarata negazione del genere tradizionale. “Far paesaggio” in senso moderno e contemporaneo significa non rimanere imbrigliati nella cieca adesione alla concezione spaziale del plein air o alla pura fedeltà iconografica e cromatica al modello naturale. Il nuovo significato sta piuttosto nel reagire alle formule tradizionali del paesaggismo con un impulso visivo che nasce al cospetto del luogo evocato, immaginato, sognato a occhi aperti, inventato: dunque, trasformato al limite di sè stesso, sulla soglia dell’oltre. La novità sta nel reagire alle consuete identità del paesaggio: dai valori del naturalismo a quelli del classicismo, dall’oggettività della rappresentazione al soggettivismo lirico del puro colore, dal realismo descrittivo all’incanto del sogno naturale, dai luminosi chiarori della natura agli oscuri presentimenti della sua perduta identità.

Paesaggio e mutazione

Più volte ci si è chiesti se sia possibile concepire una mente separata dal corpo, un’intelligenza intangibile che agisce al di fuori della fisicità del reale.

Che senso avrebbe, parlando di paesaggio, immaginarlo privo di esperienza umana, in condizioni estranee alla percezione dell’ambiente in cui esso dovrebbe avere un ruolo, acquisire presenza e determinare incidenza.

Le attuali tecnologie sono caratterizzate da una pericolosa fuga in avanti rispetto a quello che dovrebbe rimanere, sempre e comunque, il punto di riferimento di ogni nuova avventura conoscitiva, vale a dire la sua praticabilità dal punto di vista dell’umano sentire. Che senso ha pensare al futuro dell’uomo come entità puramente virtuale dove l’esperienza visiva, uditiva, olfattiva, gustativa, tattile (dunque sinestetica) cede il passo a una macchina robotica programmata e non desiderante. La vitalità sensoriale del paesaggio è, del resto, quello che ogni artista desidera nel momento in cui elabora la materia come strumento che interagisce con l’ambiente. Ciò che vale è l’urgenza dinamica del tempo, il desiderio di divorare lo spazio, l’imperativo categorico del movimento che determina ogni attimo degno di essere vissuto, in relazione alla capacità umana di sentire la natura come potenziale condizione che non opprime ma crea infinite libertà di manovra.

Si tratta della migliore prospettiva per un’arte impegnata da oltre un secolo nella ricerca di slittamenti fisici e mentali, depistamenti oltre i canoni ricevuti, un’arte che può oggi accelerare i suoi processi comunicativi senza svalutare l’esperienza dello spazio e del tempo, al di fuori di qualunque simulazione della sua identità.

Qualcosa di imponderabile spinge gli artisti a immergersi nel flusso di pensieri simultanei, consapevoli che la durata di questo viaggio vertiginoso non è concepibile se non all’interno di un percorso soggettivo che si rinnova volta per volta, seguendo una direzione mai stabile, sempre predisposta a modificarsi.

Gli artisti non pongono restrizioni alla loro azione, provano l’ebbrezza del movimento, il piacere di padroneggiare lo spazio, di trasformare continuamente le traiettorie dell’ignoto, le forze penetranti dell’invisibile che non lasciano scampo.

L’ambizione non è solo quella di cambiare il modo di guardare il mondo ma di farne parte, agire in esso, entrare nelle fibre della materia che ne costituisce l’origine e il destino: fino ad attivare una nuova dimensione del paesaggio come natura naturans, fluida visione simultanea di molteplici sensi che si propagano nell’ambiente esplorando sempre diverse connessioni in campo aperto.

Paesaggio e natura oltre

Il desiderio di respirare l’aria muta della natura è qualcosa che non ha cronologie da sostenere o percorsi da rispettare: la sensazione è quella di un continuum che spegne ogni determinazione temporale e si colloca oltre limite possibile, nel punto invalicabile dove l’arte si riconosce nell’energia indistinta della natura, essa stessa natura che genera visioni in divenire. Il rapporto con la natura non è una relazione con un dato esterno, non può essere rispecchiamento o rappresentazione, ancor meno trascrizione o commento del suo fluire. Si pone piuttosto come radice interiore, nucleo interno in cui cresce la percezione dell’illimitato, luogo dell’origine che non ha mai fine, tensione verso lo spazio aperto che non riesce a rimarginare le ferite. La cognizione dell’origine è esperienza fondamentale per gli artisti contemporanei, alle prese con il mito del primitivo e storditi dalle tecnologie emergenti e, al tempo stesso, desiderosi di assaporare il corpo delle cose. Essi non guardano più la natura, la sentono dentro di sé come un vortice di luce in cui le immagini si aggregano e si disperdono, disorientati dai movimenti folgoranti della materia psichica. Gli artisti sono concentrati sull’estensione del finito nell’infinito,sul valore dell’immagine come soglia indecifrabile dell’universo, essi sentono l’opera come operazione in formazione, territorio in perpetuo fermento dove il sibilo della memoria si congiunge ai silenzi dell’abisso e dall’oscurità nascono visioni in perpetuo divenire.

Chi può dirsi oggi un vero creatore? Che senso ha augurarsi l’esistenza di questa figura? Chi può arrogarsi un simile ruolo tra gli eventi multimediali dell’attualità? E, inoltre, quale immaginazione può ancora competere con la tradizione del pensiero poetico?

Risposte certo non si danno a questi interrogativi per nulla retorici; il fatto è che quel soggetto ideale, inquieto, sempre più marginale che è l’artista deve pur riscattare sé stesso di fronte alla natura, essere corpo nel respiro della vita, o anche solo magma caotico nell’ordine presunto dell’universo. 

Sul filo di queste concrete illusioni il rapporto tra arte e natura non ha cessato di esistere e l’artista ha saputo porsi sull’orlo del precipizio, ha coltivato l’eccesso e il tormento, non ha rinunciato all’ipotesi di un mondo nuovo. Per questo egli ha considerato inutile faccenda l’atto di accumulare immagini, di farne una sterile gestione simbolica, ha preferito il gesto della dispersione, l’esperienza salutare dello smarrimento, lo sguardo sprofondato nella materia del nulla, perduto nell’inesauribile niente. A questo punto l’artista si è accorto di essere corpo della stessa materia della natura, in tal senso egli ha fissato la sua dimora in questo margine di salvezza, consapevole di essere una particella del tutto, un punto immaginario proiettato al vertice del vortice, nel dispiegarsi molteplice dei fenomeni visibili e invisibili