Sabato 19 settembre 2020

alle ore 18:30 presso Il Fondaco verrà inaugurata

Metamorfosi dell’abbandono

di

Ivan Manzone

Livio Ninni

metamòrfoṡi s. f. [dal gr. μεταμόρϕωσις, der. di μεταμορϕόω «trasformare», comp. di μετα- «meta-» e μορϕή «forma»]

Ci sono due grandi temi che sottendono questo articolato progetto espositivo di Ivan Manzone e Livio Ninni che ho avuto il piacere di curare e che l’associazione Il Fondaco (Bra), fedele al suo obiettivo di diffondere l’arte contemporanea e con l’intento di perseguire la conoscenza, conservazione e documentazione del territorio nei suoi vari aspetti di tradizione, arte, architettura e paesaggio, presenta dal 19 settembre al 17 ottobre 2020.

Due temi che si intersecano e si sostengono secondo trame strettamente interdipendenti. La prima riflessione importante riguarda i luoghi abbandonati, quelli che giacciono al margine, gli scarti del progresso, luoghi destinati al declino e all’oblio.

La seconda concerne invece il processo di metamorfosi che, grazie al gesto artistico, rivivifica questi stessi luoghi infondendogli nuova linfa. E che trasforma architetture selvatiche e brutali, paesaggi oscuri e anfratti notturni, in ricettacoli di vita, ambienti quasi tattili e carnali.

I due artisti si immergono negli spazi, li cristallizzano da angolazioni diverse e li restituiscono ognuno con la propria poetica. Pur senza trascurare le singole specificità e le differenti cifre stilistiche – anzi, avendo in animo di esaltarle – si è voluto far convivere nello stesso ambito questi lavori secondo un criterio che mettesse in dialogo, in relazione di mutua reciprocità, visioni differenti. Provando a individuare una grammatica comune che componesse una sintassi dell’abbandono, originale o quanto meno tesa a superare i tradizionali rimandi di desuetudine, trascuratezza, miseria o rovina. Oltre la forma (μετα-μορϕή), una nuova forma. Si è cercato un nuovo linguaggio.

Il percorso della mostra, concepito come un’esperienza immersiva per lo spettatore, si apre al piano terra con le opere di Livio Ninni. Nello spazio a lui dedicato vi troviamo un’ istallazione site specific, che campeggia al centro della stanza, e una serie di lavori di diversi formati e dimensioni appesi alle pareti. A partire dal progetto delle polaroid, utilizzate dall’artista come “appunti” o “esercizi” in vista della realizzazione finale delle opere, fino a una serie di fotografie trasferite su supporti di ferro, legno e cemento e arricchite di interventi come segni, linee e forme grafiche tipici della sua pratica artistica. Il leitmotiv è qui il tema della resilienza della natura, baluardo che si oppone all’intervento dell’uomo sull’ambiente naturale con lo scopo di adattarlo ai propri interessi.

Non sfuggirà il nesso con il “Manifesto del Terzo Paesaggio”, il testo di Gilles Clément, uno tra i più noti paesaggisti europei, che nell’espressione “Terzo Paesaggio” ha fatto confluire tutti i luoghi abbandonati dall’uomo: i parchi e le riserve naturali, le grandi aree disabitate del pianeta, ma anche spazi più piccoli e diffusi, quasi invisibili come le aree industriali dismesse dove crescono rovi e sterpaglie o le erbacce al centro di un’aiuola spartitraffico. Spazi diversi per forma, dimensione e statuto, accomunati solo dall’assenza di qualsiasi attività umana, ma che considerati nel loro insieme sono fondamentali per la conservazione della diversità biologica.

La mostra continua al piano superiore dove protagoniste assolute sono diciassette opere fotografiche dell’artista Ivan Manzone. Il tema dell’abbandono e dell’incuria ambientale è qui indagato da prospettiva altra, facendo leva sul rapporto di interrelazione tra oggetti inanimati e animati, in una costante dialettica che anima la convivenza tra residui solidi dell’esistenza e esistenza stessa. Il corpo femminile circondato dalle rovine di quelle che un tempo erano fastose dimore, viene, come in una rappresentazione teatrale, illuminato da una luce che accende la scena e svela l’invisibile.

Ecco allora apparire squarci di un mondo altro. Frammenti di Villa Minetta (Novi Ligure, Genova), eletta da Edilio Raggio (1840-1906) a sua dimora urbana e polo d’attrazione della vita cittadina della Novi ottocentesca. Oppure Leri, oggi Leri Cavour, una frazione di Trino in provincia di Vercelli, un tempo possedimento di novecento ettari della famiglia Benso di cui fu conte Camillo Benso. O ancora Villa Moglia (Chieri, Torino) costruzione architettonica di inestimabile valore situata sulle colline torinesi, nata in origine come opificio tessile di proprietà della famiglia Turinetti e trasformata nel 1725 dall’architetto Luigi Barberis, molto noto fra i nobili e il clero torinese, in dimora nobiliare per la stessa famiglia Turinetti. Questi luoghi, censiti dal FAI (Fondo Ambiente Italiano) tra quelli da non dimenticare, diventano, nel momento stesso in cui si fanno immagine, spazi aperti a nuovi racconti, pietre angolari di nuovi itinerari dello spirito.

Una mostra che racconta i luoghi dell’abbandono e attraverso la loro metamorfosi racconta un territorio sconfinato in cui gli estremi si attraggono e convivono e invitano a una relazione unitaria. Quello che sempre mi interessa è il processo, prima ancora che l’esito, di unificazione dei contrari, il tentativo di ricucire la dicotomia tra gli opposti: bellezza e bruttezza, la vita e la morte, il farsi e il disfarsi qui così bene rappresentati.

Francesca Interlenghi